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Brigitte Flamigni nasce una seconda volta nel 2009 grazie a un trapianto di fegato. Questa esperienza le apre porte inaspettate, come quella della scrittura.

Credo che la mia storia non sia importante, che la mia esperienza non sia poi così straordinaria...». Brigitte Flamigni mette le mani avanti, quasi a giustificarsi. Ci sono persone che bisogna incoraggiare, spingere, quasi costringere, affinché rendano pubblica la loro storia. Perché si sente sempre più spesso il bisogno di belle storie. A maggior ragione se hanno un lieto fine. Brigitte Flamigni lo ha fatto, scrivendo un breve racconto, risultato poi vincitore all’edizione 2012 del Premio Angelo Casè, il concorso di scrittura creativa della Biblioteca di Maggia. Il titolo, «La prima volta», racchiude l’essenza della storia: le sensazioni di una persona che, dopo la malattia, apre gli occhi e riscopre il mondo, sin nei suoi aspetti più piccoli, che agli altri, a noi sani, appaiono insignificanti. Come se fosse, appunto, la prima volta. 

9 gennaio 2009: questa la data di nascita della «nuova» Brigitte. Quel giorno, all’ospedale di Ginevra, rinasce grazie al trapianto di fegato. «Tutto era iniziato poche settimane prima», ricorda. «Mi sentivo sempre stanca. Pensavo fosse il lavoro, gli impegni con la famiglia, invece quando mi sono presentata al pronto soccorso hanno detto che il mio fegato era malato. Poco prima del Capodanno 2008 sono stata trasferita a Ginevra, in attesa del trapianto. Quando l’organo è finalmente arrivato, il mio fegato non funzionava più e già da un giorno ero in stato comatoso. Quando la mente non è più padrona e i pensieri vanno, incontrollabili, si provano sensazioni che è difficile descrivere. Qualcuno la chiama pre-morte: ricordo una sensazione di calore, di luce, di benessere, di leggerezza... insomma, di un luogo dove si sta bene... So che la scienza dà una spiegazione razionale a tutto ciò, eppure quest’esperienza mi ha dato una forza che non avevo e una certezza: la morte non mi fa paura». Le parole escono veloci, ora con l’impeto di un torrente giovane, ora con la forza tranquilla delle onde. Brigitte continua a raccontare la sua nuova vita.

«Sono stata investita da un’emozione forte nel fare le cose più banali, come la doccia, o a notare cose che prima non vedevo. E ho sentito di doverlo raccontare. Ho sempre voluto scrivere un bigliettino per dire grazie: al mio donatore, ai medici e al personale dell’ospedale, a chi mi è stato vicino. Su un taccuino, annotavo le sensazioni positive, la bellezza, la gratitudine. Il concorso letterario mi ha dato la forza per concludere. Ora ho completato quel racconto con altri momenti di “prima” e “dopo” quel giorno ed è diventato un libretto intitolato “La finestra”.  Voglio dedicarlo al mio donatore, a chi non ce l’ha fatta e in particolare a una piccola grande persona, molto malata, che ha passato un decennio negli ospedali e ha atteso un anno e mezzo il trapianto con una positività e una voglia di vivere incredibili». Scrivere è stato anche un mezzo per rielaborare l’esperienza, per capire se stessa, per ricucire le sue due vite. «Ci ho messo quattro anni, non ho una buona penna, ho scritto tantissimo e ho tolto quasi tutto: alla fine resta un libretto...», si sminuisce Brigitte. 

Nel frattempo, la scrittura è diventata più di una terapia. Una vera e propria esigenza, un piacere e una passione: «Vorrei sempre fare mille cose: leggere, passeggiare, essere disponibile per le persone che mi circondano, sperimentare piatti nuovi in cucina... eppure rubo il tempo a me stessa per scrivere!». Ora che è in pensione, lo fa la mattina, con il computer portatile a letto, quando marito e figli sono fuori e in casa regna il silenzio. «Ma ancor di più riesco a scrivere nel mio luogo del cuore, un paesino vicino a Savognin, nei Grigioni, scoperto per caso un anno e mezzo fa, in un piccolo appartamento di una casa del 1860, tutto in legno, ristrutturato da mio marito, che volentieri condividiamo con gli amici. Io, che ho sempre amato il mare, sto bene tra le montagne, da sola, in silenzio, un silenzio diverso, anche da quello dei monasteri». 

Il racconto di Brigitte Flamigni è un invito e un inno alla vita. Ma anche un invito a decidere cosa fare del nostro corpo fisico. «Vieni salvato sì dalla scienza, dalla medicina che ha reso possibili i trapianti, ma soprattutto vivi grazie alla morte di un altro... non è bello a dirsi, ma devi aspettare, anzi sperare, che qualcuno muoia...». Gli occhi azzurri si inumidiscono. Brigitte ha scritto il racconto della sua esperienza, ha accettato di raccontarla perfino in tivù, lei che non vorrebbe mai apparire, per parlare della donazione degli organi. «In Svizzera la scelta è libera, ci vuole il consenso del donatore. Dato che poche persone si esprimono, la decisione tocca poi ai parenti, quando i tempi per il trapianto sono stretti. Per questo è importante saperlo prima: in questo modo si toglie ai parenti un compito arduo e doloroso. Eppure parlarne è difficile, in una società che preferisce non confrontarsi con la malattia e la morte è un tabù che genera angoscia e paure: ci crediamo e vorremmo essere immortali...».

 

Articolo comlpeto su cooperazione.ch - 14.10.2013

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